BlueRoom. Mellocolly

L’ultima volta che ho scritto in (o su?) questo posto, la mia vita non aveva ancora subìto tutti gli stravolgimenti che oggi guardo con quella tenerezza tipica di chi si volta e pensa che, in fin dei conti, è stato bello. In questa domenica nuvolosa di marzo ho pensato che magari, per una volta, scrivere per me stessa sarebbe stato anche carino. Se non altro per ricordare.
Mi sembra incredibile come i pensieri mi stiano tirando i capelli e abbia comunque le dita ferme su quella che ormai è una tastiera che a stento sfioro. Mi sembra incredibile scrivere tutti i giorni per gli altri e mai per me. Mi sembra altrettanto incredibile guardarmi intorno e sentirmi a casa, nonostante (soprattutto) la brandina, nonostante (soprattutto) i libri negli armadi, nonostante (soprattutto) la condivisione di momenti piccolissimi, nonostante (soprattutto) il poco spazio in cui riesco a stare e a cui mi sono piacevolmente abituata. E continuano a piacermi le cose piccole, quelle che entrano in una sola mano, i dolci mignon, gli assaggi di formaggio, i bicchieri piccoli, gli zaini piccoli, le agende piccole, le chiavi piccole, la cucina piccola con le piccole piastrelle bianche e blu, i segnalibri piccoli, il cucchiaino, gli abiti piccoli (che col tempo mi rimpicciolisco io e si rimpiccioliscono loro), i cacciaviti piccoli, la stampante piccola, le lampade piccole, tutto piccolo.
Il duemiladiciotto è stato un anno intenso come pochi, per nulla piccolo, ma terribile, sfiancante, spaventoso e insieme splendido, rinvigorente, divertente, unico come lo è mai stato un anno della mia vita. Ho conosciuto persone, ne ho perse altre, si sono rafforzati rapporti e altri sono lentamente scemati. Mi faccio un sacco di domande e a stento le esterno (se non quando esplicitamente richiesto), credo d’avere problemi d’udito che spesso accomuno alla disattenzione – ogni tanto finisco per sentirmi come il protagonista de Le stelle fredde di Guido Piovene -. Mesi fa leggevo ad una velocità sconcertante, adesso leggo duecento pagine in quasi tre settimane, ma va bene così. Ho scoperto una passione spropositata per l’hand lettering, non scatto una foto che sia una da mesi, e quando mi proponi di arrivare a piedi in San Salvario ti dico “ok” senza riflettere, senza calcolare i chilometri, affidandomi completamente al tuo modo di perderti, scoprendo cose che non ritroveremo mai, dirti che in certi posti ci sono già passata quando venivo a lavorare nel vecchio ufficio. Mi guardo intorno e penso che Torino sia fatta proprio al caso mio, ha tutto quello di cui necessito, è fatta di cambi repentini e quartieri tutti diversi. A immaginarmi lontana da qui, adesso, mi si crea un vuoto colossale dentro.
Sei diventata un po’ la mia blue room.
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SecondChanceMan. The Waiting Room

È un anno che non scrivi sul blog. Peccato.
Mi capita sempre questo: arriva improvvisamente la voglia di aggiornarlo, questo posto, di dire – a chi? – che insomma, ci sono, ma ho un gran sottosopra intorno (non quello di Stranger Things, no), e forse anche dentro.
Avevo una paura incredibile di questo novembre finito da due settimane esatte, ma pare siamo giunti ad un accordo. Lascio che (tra)scorra senza timore, lui va, prosegue come proseguono tutti gli altri mesi dell’anno. E così è stato. Ci siamo guardati con diffidenza ed abbiamo percorso parallelamente le nostre strade, senza intaccarci e incontrarci più del dovuto.
E ho scoperto e conosciuto cose, durante tutto questo anno. Sentimenti che non credevo di provare, sensazioni che salivano dal basso ventre e mi intorpidivano tutto il corpo. Amore totale, rabbia, incredulità, smarrimento, insicurezza, fiducia, tristezza, speranza e così tante altre cose che non le elencherò mai tutte.
Ricordo solo d’essere immersa in quel tipo di consapevolezza che riesce a starmi attaccata addosso senza difficoltà.
Ho scoperto e conosciuto posti che non avrei creduto di vedere a breve termine, scoprire e decidere di andare a viverci, poi. Sentire il calore del sole sulle gambe in un giorno freddissimo di dicembre, attraversare Roma (quasi tutta) in pochissimo tempo, sentire la commozione pervadermi e riempirmi gli occhi.
Guardare avanti, dietro, accanto.
Allungare il passo, aspettare che ti volti a guardarmi e cercarmi se non senti più la mia presenza esattamente dove sei tu.
Perdersi e cercare di non ripercorrere mai la stessa strada.
Ho perso il conto di tutti i libri che ho letto e ancora leggerò, dei film che ho guardato, dei nuovi che guarderò, degli album ascoltati e consumati, delle persone conosciute e viste una sola volta.
Ho perso il conto degli occhi che ho incontrato, delle iridi di tutti i colori, delle mani di ogni forma e grandezza, dei polsi sottili, larghi, ossuti. Degli orologi di tutti i tipi.
Ho perso il conto delle lezioni di chitarra che ho preso, da sola.
Ho perso il conto dei pomeriggi passati al telefono, delle lettere scritte a mano, dei regali spediti, di quelli soltanto pensati senza avere il coraggio di chiedere l’indirizzo dove poter far recapitare tutto.
Ho perso il conto dei magoni ingoiati e di quelli cacciati.
Ho perso il conto di tutte le verità che ho detto e che (forse stupidamente) pretendo. Che problemi hanno le persone con la verità?
Ho perso il conto dei messaggi scritti e cancellati, delle registrazioni ascoltate e riascoltate avidamente, dei video improvvisi, delle mail mai inviate, della spesa fatta per conto mio senza alcuna lista e lasciandomi solo ispirare.
Ho perso il conto di tutte le volte che mi hai chiesto il perché di ogni cosa.
Ho perso il conto delle cose che ho buttato, che ho regalato perché non ce la facevo più ad avercele sotto gli occhi.
Ho perso il conto dei sorrisi che ho lanciato, letteralmente, addosso a chiunque.
Ho perso il conto delle volte che ho chiesto di mostrarmi i denti.
Ho perso anche il conto delle volte in cui non l’ho chiesto, ma li ho guardati lo stesso, notando somiglianze che hanno finito per piantarmisi in punti precisi lungo la spina dorsale.
We meet over again.
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AtOnce. No No No

Allora mi dico che magari dovrei cominciare a scrivere di più, o tornare a scrivere di più. Questo dipende sempre da come si vuol vedere le cose. E mi dico anche che dovrei fare più telefonate, abbracciare di più, andare a correre ancora, finire rullini con la stessa velocità con cui bevo un thé che si raffredda. Dovrei costruire più scatole, più tavolini, più case, più castelli. Bere di più, mangiare meglio, completare i quaderni che non lo faccio da almeno dieci anni. Comprare meno camicie e più maglioni, comprare più dadi di diversa forma e grandezza, cercare una casa con un terrazzo dove poter mettere ad asciugare le lenzuola ed essere vicinissima alle antenne, buttare cose. Perdermi sempre, perdermi con te e senza di te. Non avere paura quando vado in stazione da sola e trovo collegamenti ovunque, tra tutti. Non lasciarti con l’influenza. Ridarti i libri che mi hai prestato, condividere la libreria, aggiornare anobii, disegnare pale eoliche dappertutto. Dovrei scaricare la musica direttamente sul cellulare piuttosto che girare a casaccio e a occhi chiusi su spotify sperando di scoprire qualcosa che mi faccia fremere le viscere con una forza tale che quando i palazzi tremano io provo la stessa cosa. Dovrei fidarmi dei tuoi no e ancor di più dei tuoi sì. Ho completato il corso del MoMA e ho voglia di farne subito un altro. Dovrei prima o poi finire di leggere Atlante delle isole remote, comprarti altri orologi che so che ti piacciono anche se li metti mai. Spiegare continuamente la logica del ‘non’ accanto al ‘mai’. Vorrei piangerti di più in faccia senza doverti sempre sfuggire dagli occhi. Dovrei spedire più cose, più oggetti, più libri, più lettere scritte a mano a più persone. Trovare più posti dove andare, concerti da ascoltare, biglietti aerei da comprare. Leggo ‘Novelle fatte a macchina’ di Rodari e rido anche quando mi spavento. Aspetto che novembre finisca con la stessa pazienza con cui aspettavo che il pane crescesse, tenendomi tutta stretta e incrociata in una felpa con i dinosauri che più passa il tempo, più sembra ingrandirsi.
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TerribleLove. High Violet

Quando si vuole fare quello che si riesce a fare dopo due anni, tutto ha un sapore completamente diverso.
I National questa volta li ho visti da lontano, al buio, defilata, ma non del tutto, e ti ho stretto fortissimo la camicia rischiando di strappartela quando ha proprio cantato just come and find me. E stamattina ti dicevo “due anni fa ho visto i National a Ferrara e quel giorno un cerchio si è chiuso”. E non mi vergogno di dire che mi hanno salvato la vita, che continueranno a salvarmela, ora che sono passati quasi cinque anni da quando li ho ascoltati per la prima volta grazie a quel kit di sopravvivenza che chissà se. E alla fine me li sono pure tatuati addosso e anche tu e quando ci penso i ginocchi mi vanno proprio giù.
E la mano sul cuore che potevo tenercela solo stretta e sudata e per fortuna non mi si sono bagnate le guance di lacrime. Don’t tell anyone I’m here, avevo scritto su una cartolina.
E in certi momenti mi sono sentita anche distaccata, can I ask you about today, distante anni luce da quella piazza, da Pistoia che non l’avevo mai vista e mi è parso comunque di girarmela tutta perché perdersi è sempre la cosa più bella. La scommessa che non l’avrei vinta lo stesso. E mangiare cose a caso, beccare la pioggia al rientro, stringerti la mano, abbracciarti forte di quel forte che lo faccio davvero troppe poche volte, I’m so surprised you want to dance with me now, sorridere nel vedere che accadono comunque sempre le stesse cose. Tu le chiameresti ricicli, io le chiamerei sicurezze.
È l’anno dei bicchieri lanciati in aria e di tutte le nostre delusioni che finalmente si frantumano, è l’anno degli occhi che si guardano come solo quelli dei gemelli possono guardarsi, è l’anno delle cose dette sempre a voce bassissima, a cui però dai un’ulteriore attenzione e che se non ci fossero quelle come le distingueresti dalle altre, poi.
È l’anno delle metafore non colte e delle cose lette tra le righe.
È l’anno della chiarezza. È l’anno della leggerezza.
È l’anno del silenzio, del mio numero dispari di anni e tatuaggi.
È l’anno della mancanza che va sempre nella stessa direzione. È una strada infinita come i numeri che porta dritto a te.
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Brainy. Boxer

Ho imparato di nuovo a piangere. Per una serie così infinita di motivi che non è nemmeno il caso di provare ad elencarli.
Sento queste costole sporgenti gonfiarsi in una maniera tale, in alcuni momenti, che mi sorprendo dell’elasticità delle mie stesse ossa. Mi sorprendo anche dell’elasticità dei miei pensieri, delle mie mani, delle mie gambe, cose che riesci a farmi notare solo tu come quando scopri che anch’io, quando sorrido forte, ho una fossetta sulla guancia solo da un lato. Che io, di persone che hanno fossette solo da un lato, non ne conosco se non ti ho davanti le mie pupille.
E vuoi insegnarmi a sorridere senza nascondermi che è l’unico motivo per cui dici che non riesci mai a ricordarmi e che è tutto uno spreco così grande che il sangue di marmellata mi ci diventa davvero. La marmellata all’albicocca continua ad essere quella che preferisco in assoluto, ma ripenso a quando mi hai regalato delle vaschette di cheesecake e quanto era buona anche la tua marmellata alle arance che creava un contrasto perfetto e sentivo il mio stomaco fare dei salti improvvisi.
E ti parlo dopo troppo tempo di quello che ho subìto senza provare il minimo timore perché so cosa dico e so che la stai ascoltando soltanto tu. E vedo una tristezza grande dentro e davanti a me, per tutto il tempo sprecato, per quelle braccia che ancora non sono state inventate per darsi gli abbracci a distanza, per farli viaggiare questi sacrosanti abbracci, per l’unico modo in cui so che riesco a respirare a pieni polmoni e capita solo quando sono in treno diretta in un solo posto.
E se c’è una cosa di cui non ho più paura è questo passato che continua a tornare a ondate e con modi sibillini che mi fanno chinare il capo ricordandomi che non si finisce mai di trascinare le cose, spesso anche indirettamente. Conosco i miei polli, dico sempre, sono consapevole, dico sempre, non mi sorprendo più degli altri, dico sempre.
C’è un mondo di scelte da fare. Non ho voluto rifare quelle vecchie che mi davano un porto sicuro. Ne ho voluta fare una soltanto, nuova, pulita, aggiustata come gli occhi e leggera come le scarpe.
Ho imparato di nuovo a piangere. E in queste lacrime, ultimamente, ci sei sempre tu.
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FiveSeconds. Confess

Sono in questo bagno sconosciuto, mi guardo allo specchio e penso che è un po’ di tempo che ricordo di che colore ho le iridi. Mi sembra una sensazione calda e sconosciuta, non riesco benissimo a inquadrarla e forse capisco cosa voglia dire casa. Guardo le gocce d’acqua che cadono dalla punta del naso leggermente arrossato dopo l’unica giornata di sole totale.
Guardo questo posto che non ha niente a che vedere con la vita che conduco da qualche tempo. Rane notturne che mi tagliano la strada, le 22.45, una donna in mezzo alla strada, piedi nudi, chiede sempre che ore siano con una puntualità sconcertante e non ricordando mai di ritrovarsi sempre le stesse persone davanti. Questo gatto che non si lascia mai toccare e fa le fusa da lontano. Gli occhi dentro e fuori. Sentirsi chiedere ogni cosa. Sentirsi dire ogni cosa. Raccogliere e fotografare il silenzio. I tagli dentro e fuori, anche. Tutti i dimmi una cosa che non so, dammi almeno tre buoni motivi, questa cosa non me l’avevi mai detta. Dire dire dire. Fare sempre più di dire. Ammetto finalmente di non saper scendere da una montagna o quello che è. Ti dico che riesco solo a salire e arrampicarmi e questa potrebbe essere la storia della mia vita, ora che ci penso.
Ti dico quello che mi è successo, che l’età cambia ogni cosa, che quello accadutomi più di dieci anni fa non prevede la stessa reazione di adesso. Ti domando quelle poche cose possibili e penso che non ho più paura di nessuna risposta. Che la consapevolezza ti fa pensare in modo del tutto nuovo, certe volte pesante e sfibrante, altre volte leggero e liberatorio. Guardo il mare davanti quando parlo ed è tutto drittissimo come la ringhiera bianca che mi separa dalla sabbia.
I nomi troppo ricorrenti, gli azzardi da fare, il cioccolato bianco, il vino che mi rende le palpebre pesantissime, trattenere forte le lacrime in alcuni momenti, non avere mai caldo, cambiare posacenere, finalmente un letto non più singolo, il faro, proteggere, l’unica parola che si riesce a dire, completamente.
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ELaChiamanoEstate. Bruno Martino

Continuo senza sosta ad aggiornare la mia agendina, cosa che fino a quattro anni fa non facevo e poi improvvisamente ho deciso di iniziare e da allora non ho proprio più smesso. Dal diciassette gennaio, ogni mattino, mi arriva la foto di una parola diversa e, ogni sera, do la definizione della suddetta parola. Anche questo fa parte del mio corso intensivo. Capire il significato di ogni cosa, stare attenti sempre al come si spiega e non solo al cosa si dice.
Ho un paio di scarpe rosse, non ne ho mai avute prima di questo colore.
Mi stanno crescendo fortissimo i capelli, ormai riesco a legarli senza troppi problemi.
Ho trovato il vecchio cellulare, quello ancora con i tastini che fanno clic-clic e ho aperto a caso alcuni sms – com’era bello mandarsi sms, quelle volte, anni fa, bello e atroce – e ho sentito i muri rovinati del mio cuore riempirsi ancora una volta di crepe, ancora una volta. Ancora sempre. Fidarsi dello stomaco.
Sono riuscita a disegnare i tatuaggi che mi mancano, entro un mese avrò altre piccole macchie indelebili sul corpo, sempre lontane dai miei occhi. Mai più niente sotto i tappeti, però. Mai più struzzo. Mai più.
Continuo a bere l’Estathé al limone negli orari più improbabili, nei momenti più impensabili, non ho più scorte in frigo e sento come se venisse meno la droga più importante di tutte. Poi vedo i tuoi occhi stralunati che mi guardano mentre decido di comprarne una lattina e sorrido mestamente, senza aver più voglia di piangere.
È arrivata l’estate. Non ci voglio ancora credere.
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DesArms. Des Visages Des Figures

L’altra sera, di ritorno da quel posto dove pare che solo alcune persone dicano delle verità assodate, dove c’erano i gatti che miagolavano fortissimo, dove pioveva solo sul mio ombrello, sono andata a vedere Youth. Ho avuto seri problemi anche solo a chiedere il biglietto, non mi veniva da dire Youth, ma altro. Altro. Il film di Paolo, volevo dire, e invece non ricordo cosa le mie corde vocali abbiano tirato fuori, qualcosa che non aveva a che fare con lui, o sì, ma solo in parte.
Quando sono entrata in sala ho sperato di rimanerci quasi da sola, come piace a me, e invece no, e c’erano persone che parlavano troppo e disturbavano troppo e mi sono letteralmente lanciata in avanti in alcuni momenti, come se il mio udito percepisse quello che veniva dallo schermo e basta – che si sa che non è dallo schermo che arriva l’audio, ma ho cercato di non badarci molto -. Non sto qui a dire cosa mi è successo con quel film, che forse film nemmeno lo è stato più di tanto.
Quando sono tornata a casa e ho svuotato lo zaino di quelle poche cose che avevo, ho rivisto quel telefono che mi hai regalato, quello che a casa tua ancora ce l’hai (?) ed è identico a quello che aveva N., che quando ti raccontavo le sue storie ridevi di gusto e ti veniva anche da piangere e gli occhi ti diventavano liquidi.
Ieri, invece, le mie scarpe si sono riempite di sabbia perché dovevo fare una cosa importante che però non ho più fatto, ma ne ho fatta un’altra, di cosa importante, ed è stata chiedere scusa, per la prima volta, perché io so, ma non capisco. E quando capisco, poi mi viene da chiedere scusa perché avrei potuto evitare tutto l’evitabile.
Invece adesso ho questo libro tra le mani, che ha più dei miei anni, e dentro ci ho trovato di quei piccoli calendari plastificati e c’e scritto 1978 e accanto ad alcuni giorni ci sono i simboli della luna piena, che è nera e sorridente. Trieste, poi c’è scritto. Trieste che cade dolcemente sul mare e sembra la mia terra, più raccolta, ed è sui confini, Trieste, e me la ricordo tutta, Trieste. E mi ricordo anche quando l’abbiamo attraversata tutta a piedi, dall’alto al basso, dalla collina al mare e mi sentivo stanchissima, ma sorridevo fortissimo dentro. Sorridevo fortissimo dentro perché stavo bene, che quando sto bene non mi piace darlo a vedere e custodisco quella sensazione con una gelosìa che non mi appartiene più.
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Angels. Coexist

Oggi mi prendo il lusso di scrivere con tutta calma. Anche di scrivere niente. Sempre con tutta calma, però.
Questa qui è la prima cosa che ho scritto e mai pubblicato. Era novembre duemilaundici. E ricordo ancora tutto. Sempre.
Una cosa che non mi è mai mancata sul serio è quella di ricordare, tranne quando il mio cervello, senza che nemmeno io lo decidessi, rigettava i messaggi che tentavi di scrivermi addosso. Le ondate mi arrivano direttamente in faccia e io apro bocca naso cuore tutto, mi lascio riempire i polmoni il sangue gli organi interni le ossa lo stomaco.
È diverso tempo che mi sveglio più o meno all’alba, quando riesco a dormire le cinque ore canoniche, mi vesto, esco, mi sento uno zombie che cammina nel silenzio di questo posto, che silenzioso lo è mai, ed è surreale oltremodo, mi lascia sempre interdetta questo mondo che si sta svegliando e le prime tazze di caffè che sento tintinnare e andare al solito bar, sedermi al solito posto, chiedere niente, che tanto il caffè arriva lo stesso in tazza fredda, quando ci si ricorda anche in bicchierino di vetro che ci ho delle maniacalità che qualche volta fanno storcere il naso e arricciarlo insieme.
Ho dovuto far rilegare la bibbia che continuo inevitabilmente a leggere a caso, senza capo né coda, scelgo sempre storie molto lunghe, mi auguro riesca a conciliarmi il sonno, cosa che invece non accade e continuo a leggerla fin quando non noto la luce del mattino che filtra e mi chiedo sempre perché io non stia dormendo. E mi sento come Titta, mi sento proprio come lui, mi sento svuotata di ogni cosa. Come quando tu mi hai incrociata in strada, mi hai trattenuta un solo istante sorridendomi, poi mi hai guardato fortissimo negli occhi, facendomi tremare i ginocchi all’improvviso, dicendomi solo che sono bella e desertica. Stammi bene hai poi aggiunto, andandotene, senza che nemmeno sapessi il tuo nome. Ricordo perfettamente tutte le rughe del tuo volto, nonostante fosse buio, ricordo il tuo dente scheggiato che mi hai mostrato senza vergogna, ricordo la tua mano ruvida sotto le mie dita. E non ho mai saputo altro, né continuo a chiedermi altro. Niente. Desertica.
Le storie che arrivano improvvisamente in questa casa, scritte su fogli che sembrano strappati di fretta e rovinati come la parte anteriore di questo cuore che sento allontanarsi proprio adesso.
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Amandoti. Epica Etica Etnica Pathos

Salve, ci conosciamo?
Ero sui confini, un mese fa, anzi di più, che sembrano essere passati vent’anni, e invece era solo un mese fa, anzi di più, e ricordo di essermi seduta su un’altalena che era lì abbandonata a sé stessa, come tutto il resto del mio corpo, e ho cominciato a dondolarmi mentre dall’altro lato dei binari c’era la Slovenia e due uomini varcavano la soglia della loro vita a braccetto. C’era anche lo scivolo e ho avuto paura; una di quelle mie sensazioni inspiegabili, ché quando ci ho una discesa davanti tiro il freno a mano e mi inchiodo, certe volte rischiando di catapultarmi al contrario e sfasciare tutto, ancora una volta.
Ho qualcosa che assomiglia ad un nodo in testa, ma piccino questo, che si scioglie facilmente, perché quando sento mancanza, di quella un po’ più forte delle altre, chiedo alla persona interessata dove si trova. Di descrivermi cos’ha davanti.
È una conferma ulteriore dell’esistenza di qualcuno.
È una conferma ulteriore della tua esistenza che se ne sta andando.
Questa è solo una delle centinaia di cose che non ti ho detto, o forse sì. E mai ti dirò, o forse sì.
Salve, ci conosciamo?
No. Non ci conosciamo né mai più lo faremo davvero.
La verità è che mi manchi da domani.
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